Creature femminili – disegni a grafite

Creature femminili

Disegni a grafite

Il mondo fantastico a cui queste creature sono ispirate, mi permette di avere una libertà assoluta e di poter navigare con la fantasia senza alcun tipo di limite diventando una sorta di canale tra questa realtà e altre dimensioni. La dimensione fantastica è da sempre stata il luogo privilegiato dove sono andate a rifugiarsi, per sopravvivere, tradizioni culturali e spirituali antiche, proprie di culti arcaici, scuole di pensiero e visioni del mondo, delle cose, della vita degli esseri umani e di Dio, di norma perseguitate in ambito comune. Soprattutto nei periodi e in quei luoghi  in cui tra antiche e nuove religioni i rapporti furono difficili per non dire invivibili. Il patrimonio favolistico-fantastico mi interessa molto quindi anche perché cela, ad esempio, istruzioni iniziatiche di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’individuo, della sua psiche. Quindi il mondo fantastico non ci parla di ciò che non esiste, piuttosto spesso e volentieri di ciò che simboleggia  un’altra realtà, una sub realtà spirituale, visionaria, spesso e volentieri esoterica e braccata, perseguitata dalle religioni ufficiali. L’Arte la interpreto come un canale di possibile espressione di questi mondi e la vivo come un processo mistico, dal greco “mysticos” e cioè riguardante i misteri. Nella mia visione il mondo fantastico, a modo suo e in maniera del tutto originale, contribuisce a delineare l’essenza di questi misteri. Proprio come le favole anche l’arte, come osserva C. G. Jung, rappresenta un autentico porto franco per l’espressione di simboli, visioni e archetipi. Dice Esther Harding nel suo meraviglioso saggio dal titolo “I misteri della donna” : “quando una donna si trova in un conflitto o in una crisi emotiva e fa un disegno, si trova in genere notevolmente sollevata, anche se non comprende cos’ha disegnato; ma se comprende il significato del suo disegno, ciò le produrrà un ulteriore giovamento poiché il disegno è spesso come un oracolo emerso dalle profondità del suo essere e contiene una saggezza che supera di molto le sue attuali possibilità di realizzazione consce”. In questo senso trovo che l’arte, almeno per come la vivo io, abbia a che fare con lo Yoga, disciplina che studio e insegno (e cioè anche con l’alchimia, lo sciamanesimo e la spiritualità autentica in generale) Yoga  che può aiutarci a conoscere, per mezzo del viaggio interiore  e ascetico-artistico, ciò che noi siamo in realtà, la nostra natura più nascosta e profonda.

Sono una sorta di visionaria e prendere atto, disegnandole, delle mie visioni, mi permette anche di utilizzare l’arte come una sorta di auto-terapia che, tramite il contributo che fornisce  per mezzo dei suoi processi di catarsi dei contenuti dall’inconscio al conscio quindi, mi aiuta a purificare dai blocchi, dai traumi, sia il mio corpo fisico che quello energetico che quello mentale ed emozionale. E mi da la forza, sempre attraverso tutta la dinamica artistica, di fissare le  individuazioni della coscienza che emergono attraverso tutto il processo di purificazione ed evoluzione che il mio modus operandi creativo sincero comporta.

L’arte per me è speranza e pellegrinaggio dentro di Sé. In fondo non ci appartiene. Appartiene al mondo. Se faccio un favore anche al mondo, pubblicando le mie visioni fino in fondo non lo so ma spero di si, confidando nell’esistenza di un inconscio collettivo, oltre che individuale, che è di tutti e essendo consapevole che tutto quello che vi andiamo a scovare dentro, attraverso il nostro frugare mistico tra le nostre ombre più buie, non appartiene solo a noi perché è probabile che possa essere patrimonio dell’intera collettività e anche a quest’ultima, in qualche modo, risultare utile. Dice C. G. Jung che “non c’è presa di coscienza senza sofferenza. In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima: non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce ma portando alla coscienza l’oscurità interiore; chi guarda fuori sogna! Chi guarda dentro si sveglia!”

Il lavoro dell’ autentico artista, secondo me, è quello del demiurgo. L’artista vero, anche quando non se ne accorge, sta agendo per il bene dell’umanità: con la sua piccola opera sta facendo in modo che l’umore di tutto il genere umano sia più equilibrato, sta dando il suo minuscolo contributo a fin che le porte tra conscio e inconscio del mondo non siano sprangate ma fluttuino.

Queste creature femminili fantastiche, mi dicono alcuni anche un po’ inquietanti, capisco solo dopo averle disegnate (non prima poiché non nascono da un processo razionale) che vengono dalla mitologia, dal mondo dei sogni, dal folklore, sopra a tutto dalla dimensione degli archetipi (rappresentando in special modo quello junghiano della Grande Madre nel suo aspetto terribile) e compiono azioni che si organizzano libere nello spazio … L’aspetto inquietante e forte delle mie creature ama combattere lo stereotipo maschilistico-patriarcale della donna oggetto, del femminino sempre buono, sempre dolce, sempre sorridente, sempre carino, sempre bello, sempre dipendente, sempre compiacente, sempre giovane, sempre rassicurante ecc … Immagine della donna  tanto in voga ancora oggi a giudicare dall’aspetto di quella proposta dai mass media di ogni sorta e genere. Lo stereotipo del femminino è in opposizione con la natura del principio femminile più autentico di cui sono alla ricerca attraverso i miei lavori.

 La natura fa parte del mio immaginario come una presenza silenziosa ma inesorabile, si mischia alle creature che rappresento, si interseca ai loro corpi, agli scenari che li accolgono ed è ovunque, ove le figurazioni che sono nella natura del fuori si ripetono anche nella natura del dentro, secondo il principio dell’osmosi: alberi come falli o figli, piante come neuroni, neuroni come ghiandole mammarie, ghiandole mammarie come fasci di nervi e così via … In questi disegni con le parole nessuno dice niente e tutto spesso si mischia e basta, natura nuda e corpi femminili nudi, in una maniera che sembra confusa ma che in realtà di confuso non ha niente; natura e corpi si intrecciano in uno strano silenzio, come accade alla vegetazione delle foreste vergini che diviene talvolta così intricata da risultare impenetrabile e pare caotica a un primo colpo d’occhio, ma in realtà la sua organizzazione nello spazio corrisponde a ordini misteriosi e imperscrutabili che hanno a che fare con il divino: nella mia ottica  il creatore (Dio) e la creazione (la Natura) sono una e una sola cosa, non due.

A volte gli spettatori si chiedono come mai io non faccia uso alcuno del colore … Da un lato mi viene spontaneo non usare il colore perché è probabile che il mio disegno si esprime forse  in quanto scrittura.  Scrittura propria di un mondo lunare e sua manifestazione che, come il ciclo di quel femminile astro, passa da un tempo di buio scuro a un tempo di luce chiara con in mezzo, fra questi due poli opposti, tutte le sfumature di grigio del caso. Rappresentano l’essenziale. La vita e la morte, la morte e la vita. Il bianco e il nero (la luce e il buio) che sono la quint’essenza della natura morte-vita dell’Antica Madre, della Dea, cioè del principio femminile alla Luna associato. Questa luce e questo buio rappresentano la Luna e le sue fasi con tutto quel che esse simboleggiano: il tempo, i cicli, le stagioni, il mondo diurno e quello notturno, la Natura e tutte le sue manifestazioni di abbondanza e carenza, inizio, fine e così via …

 Il mio lavoro si rifiuta di approdare carico di desideri, tanti quanti colori ci sono sulla scena visiva, a un immagine realistica piena zeppa di  effervescenze coloristiche. Il mondo che ci circonda già c’è ed è tutto colorato; vorrei provare a narrare ciò che in esso è occulto e celato, nascosto, non ché  farlo adottando, senza intenzionalità a priori, un escamotage  visivo che mi consenta di tracciare una separazione tra la realtà di superficie, tutta colorata e il mistero che sta sotto, dietro, occultato, al di là dei colori.

Dall’altro lato mi viene naturale evitare il colore perché tutto ciò mi rimanda all’opzione dell’essenzialità, dell’austerità, della severità, della povertà, della rinuncia all’orpello, della rinuncia spirituale ad ogni forma di brama; mi richiama ad una scarna “monacale” adozione di voluta ricercata sobrietà, ad un senso dell’economia e del risparmio, alla pura semplicità, alla ricerca della bellezza interiore: al volgere l’attenzione presso l’interno dove, chiudendo gli occhi, grazie alla meditazione che amo praticare, si può indagare  alla ricerca di se stessi nel buio che è nero …

L’assenza di colore la sento pura, vergine e il colore sulle mie opere mi pare, lo avverto, come qualcosa che le sporca, le imbratta, le contamina gravemente, le insudicia anche quando distribuito ad arte. Il colore mi fa pensare alla corruzione di qualcosa di puro. A delle impronte umane di affaccendati colonialisti in una natura vergine  incontaminata.  Lo sento personalmente come un possibile artificio, come un virtuosismo pirotecnico di esplosioni scoppiettanti sparate a caso nello spazio giusto perché si deve, giusto per impressionare, giusto perché ormai c’è quest’obbligo, questa specie di abitudine spesso distratta, lo sento come un partecipare a una deriva ridondante, come un precipitare in una seduzione che reca con sé l’attrattiva, spesso e volentieri, come suo unico obbiettivo, un attrattiva che vorrei evitare per puro senso di rinuncia.

Il colore lo sento come un escamotage messo in piedi per sedurre, lo sento complesso e lo percepisco come ricercato, come un per di più, mi pare “artefatto”, falso rispetto alla scarna elementarità del bianco e del nero e come una forma di ricchezza che può anche trarre in inganno, contrapposta alla povertà del bianco e del nero che ha meno pretese e meno elementi con cui catalizzare, abbagliare, forse ingannare lo spettatore. Il colore mi rimanda alla vanità, alla  ricerca di una bellezza sopra a tutto esteriore …

Le creature femminili dei miei disegni  non si vogliono avvalere, per l’espressione di sé stesse, di rafforzarsi con le argomentazioni del colore, né sentono l’urgenza di esprimere la loro realtà con toni per di più, in aggiunta al bianco e al nero, che sono, quest’ultimi, il bianco e il nero, di per sé stessi  più che sufficienti a manifestare quel che desiderano dire queste opere al pubblico … Il bianco e il nero mi bastano a farmi dire ciò che ho da dire … Perché dovrei quindi aggiungere qual cos’ altro? Se i colori sono musica, toni su toni, voci, rumore, traffico, che male c’è a volere un po’ di silenzio?

Si può dare vita anche a un modo di procedere, nell’arte, che non sia quello di voler sempre essere a tutti i costi visti e vistosi ma bensì alla ricerca di una verità che è anche al di là del colore e dei colori, sempre così tesi, egocentrici, a eccitare, a stimolare l’apparato visivo, i sensi … Non a caso sempre così protagonisti, anche fra gli animali e gli umani,, nei rituali di seduzione e accoppiamento.

Perché queste creature femminili sono nude? Nei rituali tantrici la Dea è descritta come “rivestita di cielo”(Digambari). Nella sua assoluta primordiale nudità, la Dea Kali, che in particolare inspira ogni mia visione del femminile, è libera da ogni velo di illusione: è la Natura (Prakriti) senza veli. E’ nuda. Oltre che del colore le mie creature femminili si spogliano anche di ogni vestito: le opere che offro alla vostra attenzione sono disegni dove l’umano si denuda di ogni abito per dire la sua verità anche attraverso la corporeità più indifesa, oltre che grazie al colore che  tace . Nudità come metafora di sincerità e trasparenza assolute; abito come simbolo e contaminazioni dell’ego (noi per l’Advaita vedanta non siamo la nostra professione, la nostra identità di genere, la nostra personalità, tutte cose manifestate dall’abito). Il nudo puro e crudo come verità, come rinuncia ad ogni stantia apparenza data dal vestito, come ricerca di integrità con la sorgente originale dalla quale i nostri ruoli sociali rappresentati dall’abito ci separano; nudità per arrivare a svelare ciò che nell’umano è occulto, nascosto, immobile, divino e contrapposto all’abito che rappresenta il molteplice, l’effimero (un po’ come anche il colore) cambiando sempre, mutando per antonomasia. Mi viene sempre così  naturale di rigettare l’abito: come si rifiuta qualcosa di assolutamente grottesco che ci serve per mentire, ai limiti del ridicolo.

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